Il più crudele dei giorni
A 20 anni dal mistero sulla morte di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin
- Italia
- 20/03/2014
- di Veronica Alongi
L’informazione…una delle risorse, se non quella principale, più importanti di un popolo. È uno strumento estremamente delicato, attraverso cui è possibile ricomporre il puzzle di un evento, costruire opinioni, (in)formare una società; ma è proprio il grande potere di persuasione che essa racchiude in sé la caratteristica che la rende facilmente plasmabile, soprattutto nelle mani di chi volentieri ama distorcerla a proprio piacimento. Il lato accettabile, quasi sempre sotto gli occhi di tutti, e quello scomodo, difficile da scorgere: ecco cosa mi ha sempre affascinato del giornalismo. Tempo fa sono rimasta piacevolmente coinvolta da un film tanto accattivante quanto sfacciato; si tratta di “Sbatti il mostro in prima pagina”, di Marco Bellocchio, in cui un immenso Gian Maria Volontè, caporedattore de “Il Giornale”, redarguisce un suo giornalista che in un articolo riguardante il tragico suicidio da parte di un padre di cinque figli usa le parole “disoccupato” e “disperato” nel titolo, e lo fa in questo modo:
<<Mi pare evidente che la parola “disperato” è gonfia di valori polemici…se poi me lo unisci alla parola “disoccupato”…”disperato-disoccupato”, beh allora ci troviamo di fronte a una vera e propria provocazione…Vogliamo vedere di rifare insieme questo titolo? Può capitare a tutti di sbagliare no!? Scrivi: “DRAMMATICO SUICIDIO”, “drammatico-suicidio”, due parole, “DI… cos’è un calabrese il poveretto? Ecco, “DI UN IMMIGRATO”, “immigrato”, una parola sola che contiene implicitamente il disoccupato e il padre di cinque figli, ma da anche un’informazione in più! >>.
Il potere delle parole. Parole che spesso riesci a pronunciare, a mettere per iscritto in un articolo di circa una pagina, parole che riportano la verità…o che molte volte invece è meglio non sentire, meglio non pubblicare, meglio spegnerle sul nascere. Con la stessa intenzione di camuffare la realtà usata nel film precedentemente citato, ma con risvolti ben più drammatici, è emersa 20 anni fa la storia di Ilaria Alpi e del suo cameramen Miran Hrovatin. Anche i titoli risalenti a quel 20 marzo 1994 contenevano un’unica certezza, e cioè che entrambi erano stati uccisi in Somalia, a Mogadiscio, freddati con dei colpi di kalashnikov, ma ciò che vi era dietro quelle inserzioni da prima pagina era e continua ad essere un mistero condizionato da troppe verità nascoste, testimonianze ritrattate, depistaggi, incongruenze. Una storia dapprima presentata come una sventurata sciagura, ma che ha ben presto assunto i tratti di una vera e propria esecuzione da parte di un commando omicida, necessaria ad impedire che l’inchiesta condotta dalla giornalista del Tg3 insieme all’amico Miran sui traffici d’armi e di rifiuti tossici fra l’Italia e la Somalia fosse portata a conoscenza dell’opinione pubblica. Purtroppo quest’asserzione ha avuto molti detrattori negli anni, tanti “Volontè” pronti a screditare la realtà dei fatti; come sostiene la portavoce dell’”Associazione Ilaria Alpi” Mariangela Gritta Grainer, aver posto la segretezza su ben ottomila documenti è diventato un modo per occultare, impedire di indagare o, peggio, fare carte false. Già nei momenti immediatamente successivi all’attentato nessuno si reca sul luogo del delitto per effettuare dei rilievi, le armi presenti sulla scena non vengono sequestrate, i testimoni non vengono interrogati; ogni cosa che poteva ricondurre alla verità viene fatta sparire, a cominciare dall’inseparabile macchina fotografica della giornalista, mai più ritrovata, fino ai quaderni dove Ilaria appuntava i suoi spostamenti, le sue congetture, i suoi sospetti, misteriosamente scomparsi. “Ilaria Alpi era lì in vacanza”, sostenne Carlo Taormina, presidente della Commissione parlamentare d’inchiesta, avviata nel 2003 e chiusa nel 2006, portando avanti la tesi del rapimento fallito. Dopo 20 anni, solo un presunto esecutore dell’assassinio, Omar Hashi Hassan, è stato condannato a 26 anni di carcere nel 2002, arresto che appare più come il tentativo di “sbattere il mostro in prima pagina” che non la reale chiave di volta dell’accaduto.
Il più crudele dei giorni dunque, reiterato da 20 anni, ma commemorato in diversi modi, che trovano il loro primario punto di riferimento nel “Premio Ilaria Alpi”, un riconoscimento a chi crede ancora nella passione per il giornalismo e, soprattutto, nella ricerca della verità.
Veronica Alongi
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